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GRAN BOLLITO

In Charles Willeford, Clint Eastwood, movies on aprile 22, 2009 at 16:38

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Recensione A

Un grande film sulla tolleranza, sui nuovi americani, sui rapporti tra giovani e vecchi, tra genitori e figli. Una grande prova d’attore per un Clint Eastwood poche altre volte così intenso ed espressivo. La scoperta che i veri affetti non sono mai quelli che ci vengono proposti dalle convenzioni sociali, bensì quelli che si costruiscono un passo alla volta, superando le diffidenze tra i popoli e le barriere della lingua. Una splendida storia di formazione.

Recensione B

Walt Kowalski, operaio dell’industria automobilistica oggi in pensione (e interpretato da un Clint Eastwood che qui utilizza al meglio la seconda delle due espressioni facciali che gli attribuiva Sergio Leone, ovvero quella senza cappello) è quasi sicuramente il più temibile rompicoglioni della storia del cinema: scorbutico, arrogante, razzista, sboccato, in possesso di un arsenale da far invidia all’ispettore Callaghan e aggressivo in maniera spropositata (anche se, va detto, è vessato quotidianamente da un prete forse più rompicoglioni di lui, che cerca di convertirlo a tutti i costi; ed è forse l’unico momento del film in cui davvero si vorrebbe incitare il vecchio Clint a tirare fuori la pistola e usarla come si deve). Il Kowalski (fresco vedovo, per fortuna di sua moglie) si trova coinvolto, suo malgrado ma neanche tanto, in una sorta di faida tra i suoi vicini di casa (una famiglia di immigrati Hmong di dimensioni mostruose: saranno almeno 35-40 persone, a dir poco) e una gang minorile composta da teppisti ben armati e legati – come dubitarne – da rapporti di parentela con l’immane famiglia medesima. Dopo ben due ore di film, la gang si rompe giustamente le palle e provvede a far secco il vecchio Kowalski, ignorando che di lì a non molto sarebbe con buone probabilità già morto per conto suo (amianto? Silicosi?) dopo essersi clamorosamente andato a confessare dal temibile prete di cui sopra e aver vergato un trombonesco testamento grazie al quale può continuare a rompere i coglioni anche dall’aldilà, tutte cose che Dirty Harry si sarebbe guardato bene dal fare. Ma erano altri tempi.

Recensione C

Potessimo rovistare tra i libri che lo sceneggiatore Nick Schenk ha sul comodino, non ci sorprenderebbe affatto trovarci una copia di Tiro mancino, il capolavoro di Charles Willeford. La prima oretta del film – che è in effetti la migliore – sembra infatti presa in gran parte dalla storia di Stanley Sinkiewicz, con delle coincidenze davvero troppo incredibili per non essere volute. Ma, purtroppo, della sacrosanta cattiveria di Willeford qui non c’è traccia, e il film vira ben presto verso situazioni iperprevedibili, per non dire telefonate. Peccato, perché le premesse non erano malvage, ma l’esito finale non sembra poi ‘sta gran cosa.