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LEE CHILD, O COME TORNARE RAGAZZINI

In books, Lee Child on ottobre 21, 2008 at 14:10

Per leggere con profitto i romanzi di Lee Child (pseudonimo di James Grant, nato a Coventry nel 1954 e riuscito, in soli tredici anni di carriera letteraria, a diventare uno degli autori più letti e pagati al mondo) è necessario munirsi di uno strumento critico fondamentale, che gli anglosassoni amano chiamare suspension of disbelief.

Con tale sospensione d’incredulità sottobraccio siamo allora pronti per affrontare, senza fare la minima piega (e anzi, prendendole per buone), tutte le sconcertanti, incredibili coincidenze che l’autore britannico – ormai naturalizzato statunitense – ama far esplodere ogni cinque minuti tra i piedi del suo supereroe, quel marcantonio di Jack Reacher, ex maggiore della Military Police americana e protagonista di ben dodici romanzi, l’ultimo dei quali è Nothing to Lose, uscito da non molto negli USA.

Con tale sospensione d’incredulità sottobraccio, a leggere i romanzoni di Lee Child ci si diverte un sacco, garantito. Questo perché l’intuizione di Child, gran conoscitore delle pulsioni nascoste e non tanto nascoste del pubblico, stante la sua lunga precedente carriera come produttore televisivo (impiego da cui fu licenziato su due piedi nel 1995 per una di quelle “ristrutturazioni” che vanno così di moda nelle grandi aziende) è stata quella di ripescare il buon vecchio romanzo d’avventure, campo in cui i britannici, da John Buchan fino ad Alistair McLean, sono sempre stati molto abili; aggiornarlo con una bella spolverata di hard-boiled, condirlo con generose spruzzate di violenza (ma non troppa), azione (quella sì, a mani basse), un pizzico di sesso (assai casto, in realtà), e servire in tavola ancora caldo.

Ci si diverte un sacco, perché certe volte con Child sembra di essere tornati ragazzini: i buoni sono buonissimi (Jack Reacher è un marcantonio di due metri, la testa di Bruce Willis sul corpo di Arnold Schwarzenegger, a sentire ciò che racconta Child nelle interviste, ha lasciato l’esercito e vive da drifter, un senza fissa dimora per scelta, che non vuole legami di alcun genere e si muove per l’America quasi aspettando che i guai gli vengano a bussare sulla spalla), mentre i cattivi sono cattivissimi (per esempio, Hook Hobie, il bad guy di Tripwire, è un incrocio tra Capitan Uncino e uno dei ripugnanti, anche nell’aspetto, criminali che combattono contro Dick Tracy).

Naturalmente i cattivi perdono sempre; Jack Reacher – come insegna Bruce Willis in Die Hard – prende un sacco di botte (e un sacco, più una, ne dà), ma è così grosso, buono, altruista, intelligente e disinteressato che non può fare a meno di mettere le cose a posto, si tratti di una congiura per assassinare il Presidente o della misteriosa sorte di un gruppo di militari americani in Vietnam, o ancora di una serie di assurdi omicidi in un paesino sperduto nel nulla, che in trent’anni non aveva mai visto fatti di sangue (e, guarda caso, è sufficiente che Reacher scenda dal torpedone per dare il via alle danze…).

Tripwire, il romanzo che ha dato il via a queste riflessioni, ha la singolare caratteristica di svolgersi in gran parte all’interno delle Twin Towers, e riletto oggi, a quasi dieci di distanza dalla sua uscita – è del 1999 – fa proprio per questo uno strano effetto.

Insomma, nei paragrafi precedenti vi ho raccontato in estrema sintesi la trama di ben tre romanzi di Child (uno, ancora, Echo Burning, non è altro che una rivisitazione di Mezzogiorno di fuoco in chiave hard-boiled, e così via). Gli è che a volte, in un’epoca di eroi tormentati e problematici, c’è un gusto quasi perverso nel leggere di un personaggio le cui certezze e il cui istinto sono incrollabili, invincibile perché ha sempre ragione lui e, soprattutto, assolutamente incapace di stirarsi una camicia (una volta usate, infatti, le butta via direttamente).

LC